MENTE IN LOCKDOWN

Certi professori non lasciano niente

Il Coronavirus si porta via Stefano De Franceschis, storico professore di filosofia del liceo classico Galluppi”. 

La notizia è spiazzante: la sensazione di non volerci credere si mescola all’ingenuo mio stupore, che dopo tutto questo tempo, lui fosse ancora vivo. Non mi sono mai domandata se lo fosse, ed è questa notizia di morte a ricordarmelo. Mi chiedo quanti anni avesse. Scavando nel passato, infatti, lo ritrovo già vecchio negli anni Novanta. Complici forse gli abiti grigi e i capelli bianchi.

Che strano, non so niente di lui, o almeno so pochissimo, da adolescente credevo che anche i ventenni fossero vecchi, e il lontano ricordo che ho sulla sua età, è sicuramente distorto. Sul web, a parte l’articolo e una foto sgranata, che lo ritrae accanto al mitico Piero – segretario nerd, su cui dio solo sa, quante se ne sono raccontate -, del professor Stefano De Franceschis, digitalmente quasi non v’è traccia. Tra migliaia di vittime, ora so che non ce l’ha fatta, e in un ospedale di Frosinone, il killer invisibile ha vinto anche su di lui, lontano dalla sua terra, lontano dalla nostra scuola: il liceo classico Pasquale Galluppi. 

Era 1996, quando su richiesta dell’allora preside Armando Vitale, lo storico professore accettò di arrotondare le sue ore da noi, negli Inferi; era così che chiamavamo il piano terra-più-terra di tutto l’edificio. E il primo giorno di scuola, l’orario provvisorio dettato da Piero, anticipava che il professor Stefano De Franceschis avrebbe dunque insegnato Storia e Filosofia alla mia classe, la prima L. Una lettera che oggi c’era domani no, visto che ogni anno il quarto ginnasio, veniva raccattato se gli iscritti erano in eccedenza rispetto al limite di alunni per classe. Una sezione scarto si potrebbe dire. E come tale ogni anno dagli Inferi, accoglieva uno strampalato turn over di professori, insieme a qualche ripetente scappato a gambe levate dalle sezioni ritenute più “toste”. 

Il professor De Franceschis era associato alla lettera E, una sezione allocata al piano più alto della struttura che, se la mente gentilmente mi appoggia, era (ed è ancora) di quattro piani. Ligio alla professione, per fare le sue ore da noi, ogni volta doveva attraversarli diametralmente tutti. Le sue lezioni seguitavano il tempo che ci metteva ad arrivare, e il nostro reciproco buongiorno.

Entrava in classe con il registro sotto il braccio e dopo cinque minuti partiva già con il programma. Era puntualissimo. La sua cattedra durò solo un anno, e non mancò mai. A parte qualche apprezzamento sul buon vino di Cirò, difficilmente lasciava pareri personali e vita privata lambire i banchi di scuola. Mentre la prof di italiano ci ammorbava con racconti sul marito; quella di chimica aveva negli occhi il freddo dell’Antartide; quella di inglese dimenticava sempre che giorno fosse; e quello di matematica vestito da pagliaccio era uguale a It; Il professor Stefano De Franceschis, dietro le sue materie antiche, il carattere ruvido e gli impeccabili completi eleganti, nascondeva svariate e pittoresche sfumature. Quotidianamente incravattato e sbarbato, sembrava un folletto perbene. I capelli erano bianco cenere, in una morbida riga di lato, e facevano a cazzotti con due spazzole nere esibite al posto delle sopracciglia; mentre un giorno no e tanti sì, qualche pelo nerboruto, gli sfilava fuori indisturbato dal naso o da un orecchio. Dettagli da bosco incantato, che potevi notare, solo le pochissime volte che ti avvicinavi alla cattedra, quando in barba all’utopico distanziamento sociale, superavi il metro e i peletti e le sopracciglia si animavano al ritmo di ogni sua cavernosa parola. 

La seduta poi era fantastica, per accomodarsi, faceva un mezzo inchino e con le dita tirava su i pantaloni talmente tanto che dall’ultimo banco vedevamo di che colore avesse i calzini: neri e aderenti fino al polpaccio. Era basso e con i gomiti spesso faceva leva sulla cattedra “oggi spieghiamo” oppure “oggi interroghiamo” erano plurali maiestatis che davano alle sue ore un mood, diverso dall’altro. Alle volte pareva Speedy Gonzales, e riusciva a fare tutte e due le cose. Non trasmetteva mai timore, il suo modo di approcciarsi a noi e al sistema scolastico in genere, era velatamente ruvido, quasi folcloristico. Era fissato con il Villari un libricino di storia che per lui era bibbia, per noi una specie di taccuino. Lo conosceva a memoria. E implicitamente se interrogava, paginetta per paginetta, come lui avresti dovuto conoscerlo anche tu. Sosteneva che non bisognava studiare “mnemonicamente”, ma quando spiegava alla fine sembrava un dettato. Tra una parola e l’altra, ruminando un po’ si fermava in segno di riflessione, guardava dalla finestra, e quasi in catalessi dettava anche il punto e la virgola. La mia vecchia compagna di banco, aveva una sorella che un paio di anni prima era stata sua alunna. Insistette per portarmi alcuni suoi vecchi appunti: li confrontammo. Erano identici ai nostri. 

Il suo accento era marcatissimo, roba che tdoppia ttrc e doppia c, quando le pronunciava lui, alle orecchie di qualsiasi catanzarese, per rafforzo e aspirazione valevano il triplo: “Entro quale steccato ci siamo conosciuti?” una domanda che potrebbe racchiuderle tutte. Diplomatico nei rimproveri, un mattino ebbe uno slancio e affrontò così un bulletto della scuola: “Entro quale steccato ci siamo conosciuti?”. Non ricordo proprio quale torto avesse, ma quel giorno il prof decantò il diverbio con fierezza, e mentre calcava sulla frase, noi ridevamo più per la sua pronuncia stretta che per la sottigliezza che avrebbe dovuto avere. E lì per lì, il bulletto dello steccato forse avrà fatto lo stesso. 

De Franceschis amava le feste di classe e le gite scolastiche. Per quelle sacrificava le ore di lezione con piacere. Ai compleanni era il primo a suggerire cosa dovessimo portare. Assaggiava di tutto, mischiando dolce e salato indistintamente. Durante una festa pre-natalizia – concessa dal Preside a tutta la scuola-, a degli alunni delinquenti gli sfuggì la mano, insieme a qualche rotella dalla testa. Ognuno portò qualcosa per la sua classe, i delinquenti invece prepararono uno scherzo: una torta schifosa, che proprio perché era uno scherzo, chi la mangiò finì addirittura all’ospedale a fare una bella lavanda gastrica. Ricordo ancora il giorno della festa: noi dagli Inferi ai piani alti e viceversa, la scuola sembrava un circo, tutti nei corridoi andavano dove pareva. Con la mia compagna di banco, incontrai per caso De Franceschis nelle scale, tesseva le lodi a una strepitosa torta panna e cioccolato, che aveva assaggiato proprio in quella classe; fece il nome della sezione, prima il numero poi la lettera, invitandoci ad andare a provarla. Per fortuna non ci andammo mai. Il giorno dopo si seppe dello scandalo. A scuola il preside riunì un’assemblea, i tizi furono puniti con alcuni giorni di sospensione, i rappresentanti di Istituto manifestarono perché non la ritennero abbastanza dura, Catanzaro sapeva, l’ospedale sapeva, la notizia della torta di cacca di cane e schiuma da barba, rimbalzò su un quotidiano regionale, e solo il prof. De Franceschis all’oscuro di tutto, sulla carta stampata dichiarò di non saperne assolutamente nulla. Comprammo il giornale. Ridemmo per mesi. Mesi che passarono in fretta.

Arrivò la primavera, e arrivò anche la gita scolastica. Non era una gita qualsiasi, era la famosa gita in Grecia, e dulcis in fundo il mitico professor ci avrebbe fatto anche da Cicerone. Quanta attesa ed emozione per quel viaggio: il Discobolo, Fidia, l’Acropoli e tutti i sacrosanti filosofi del V secolo, uscivano finalmente dai libri, ma con le rivolte in Albania e la tragedia dei migranti nel canale di Otranto, la partenza fu in dubbio per un po’. Non appena le nubi si sgretolarono, per il professore iniziò la vera festa: come uno studentello felice se ne andava in giro ad annunciare ogni tappa del programma, più i vari dettagli sulla partenza. Una bislacca irruzione nelle classi, che spesso condivideva con Piero, il segretario nerd che gli portava le carte. “Vedrete ragazzi vedrete, questo sarà un viaggio DI-VI-NO” sillabava puntualmente alla fine, e con aria birbantella poi volava via, lasciandoci quasi interdetti, in balia del pathos e della doppia simpatica lettura.

Era un uomo dal carattere ruvido, il professor De Franceschis. Con l’animo tutto d’un pezzo, forse sapeva quando era il momento di allentare la presa. Non ho saputo più niente di lui. La gita in Grecia, la scuola, il diploma, la vita. Non mi sono mai chiesta se fosse ancora vivo. All’improvviso la sua scomparsa mi ha regalato questo spensierato viaggio nel tempo. Certi professori semplicemente restano, alcuni di loro non sembrano umani, e nella loro contemplazione chiedersi se siano vivi o no, è una cosa cui ci abituiamo a non dare troppa importanza. Forse abbiamo paura del tempo che vola, e che nei ricordi ci riporta sempre più lontano da lì. Forse qualcosa ci fa ancora male. Certi professori non lasciano niente, neppure la materia che insegnano, altri invece si aggrappano solo ad essa, e non lasciano niente uguale. Il professor De Franceschis era pittoresco per davvero, non si aggrappava solo a Storia e Filosofia, e le sue sfumature erano spesso vincenti. 

Certi professori semplicemente restano, alcuni di loro sono libri aperti, altri lasciano tanti misteri… e a questo punto chi lo saprà mai, caro professore, se un pezzo di quella torta schifosa, lei l’ha mangiato oppure no. 

Il professor De Franceschis e Piero |Illustrazione di Gabriele Melodia

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