Il mio interesse per Mario Costantino Triolo, si accende a Roma nell’estate del 2018, quando il designer calabrese presenta una collezione, tra le storiche mura del Chiostro dell’Angelicum.
Con una couture dinamica, in quel convento segreto, mi colpisce il motus contemporaneo. Subito riconosco una doppia anima: imprimatur di eleganza e scompiglio, dietro un tripudio di svolazzi batik, tie-dye e bouganville stilizzati, fermati da cinture in vita che magicamente liberano me, e tutto il resto.
Da lì la mia attenzione furtiva spia il designer, che poco tempo dopo, alimenta i social di misteriose preview, e tutta una serie di cose bollate dall’hashtag #comingsoon. Suggestive condivisioni che senza troppi giri di parole, alla fine mi scoprono – improvvisamente – a Milano, con un invito a seguire dal vivo Grace, la capsule seasonless dalla doppia anima, venuta fuori per sugellare il debutto ufficiale, del trascinante designer calabrese.
Prima di arrivare tra gli spazi meneghini, però, tra le due metropoli e in ordine cronologico, la mia intervista a Catanzaro Lido.


In un mattino d’inverno con il sole titillante da sembrare maggio, il designer si racconta in un bar ad angolo. Di fronte: il lungomare a mosaico, opera urbanistica colorata, che divide lo Ionio dal quartiere, versione marinaresca del capoluogo calabro, luogo in cui Triolo, desideroso di stimoli, ha da poco fatto ritorno.
Sembra laconico, ma è solo prima impressione. Bozzetti sotto mano, sfiorando l’ora penzolante tra una colazione sul tardi o un happy hour ante meridiem, Mario beve il suo caffè tutto d’un sorso: “Ho iniziato qui, in Calabria con nonna Alfonsa. Lei è stata la prima in assoluto a capire questa mia propensione, anche se non amo definirla sarta… era semplicemente una nonna che cuciva costumi di Carnevale per i nipoti, e qualche volta per la gente del posto”.
Classe 1981, origini nel cuore, un corso di moda di tre anni, e tanti spostamenti alle spalle. Prima di Roma, Milano, e del recente ritorno nella sua città natale, a metter in moto lo slancio creativo, è quel trasferimento a Bologna con tutta la famiglia, nonna compresa. Al fianco, infatti, i suoi insegnamenti lo accompagnano nelle avventure più folli, anche quando per gioco inizia a collaborare con una nota discoteca bolognese. Un lavoro sul campo che lo impegna per quasi sette anni (“Ora, trovami tu una nonna, che si presta a creare con un ragazzo di vent’anni, dei costumi pazzi per delle ballerine” apostrofa sorridendo). Un gioco che subito si fa serio permettendogli di comprendere la sartoria nella sua forma più nuda, pratica e articolata. “Mario devi imparare, Mario devi imparare, Mario devi imparare”, mentre parla i suoi sorrisi sono pause che edulcorano, i continui battibecchi con nonna Alfonsa, pronta a riprendere con la tecnica e la struttura quei capi che per Mario letteralmente volavano, come i suoi sogni fatti di costruzioni assurde, abbozzate in nuvole e affastellate di ruche e volant.
Così, sempre a Bologna, Triolo accetta i consigli di nonna, e bussa a una piccola sartoria: “Sono entrato in punta di piedi e ho iniziato con i cartamodelli, poi le giacche, poi gli abiti da sposa – racconta il designer – diciamo che ho iniziato con gli occhi, rubando prima quella manualità necessaria per capire come realizzare tecnicamente un capo”.
Arte forgiata e messa a frutto, qualche anno più tardi, quando si ritrova a lavorare per alcune aziende di pret à porter. Esperienze forti e intense che permettono al giovane di capire le dure regole del mercato “perché aldilà dei sogni e dei bozzetti strepitosi, alla fine tutto ciò che conta è riuscire a vendere”. Il disegno è l’1% del lavoro, tutto il resto è tecnica, ora lo sa bene. Con la mente prova a collegare tutti quei puntini, che come diceva il visionario Steve Jobs, forse riesci a capire soltanto dopo che di lezioni ne hai vissute, e di esperienza ne hai fatta. Mario lancia uno sguardo al suo mare, e dopo il caffe butta giù un sorso d’acqua. Ha 38 anni e si sente fortunato ad aver visto l’ultima coda dei grandi: Gianfranco Ferré, Gianni Versace, le sfilate a Piazza di Spagna, perché è impossibile vivere quello splendore e non uscirne influenzato in qualche modo.

L’ossessione per il tulle, e quel desiderio di addomesticarlo, le costruzioni geometriche, la donna glamour, che non vuol dire per forza luccichio “ma indossare un capo e fare in modo che la gente si giri a guardarti”.
Pensa si tratti di un concetto vecchio e obsoleto “ma un capo deve regalare sogni ed emozioni che restano per sempre”. Così spillo dopo spillo appuntato su mannequin, ad un certo punto viene fuori una nuvola. Nuvola che Mario prova a misurare, come nell’opera di Jan Fabre (L’uomo che misura le nuvole) da cui – improvvisamente- trae l’essenza delle sue creazioni.
“Da piccolo vedevo i capi di Azzadine Alaïa, sempre presentati su manichini senza corpo – racconta estasiato – hanno solo un’anima interna, l’abito è indossato, ma dentro non c’è niente. I suoi abiti sono sempre collocati in musei, in gallerie, ma anche una semplice foto in uno studio, con le luci giuste, per me è già museo”. La staticità della couture e il dinamismo del daywear, ricordando nonna Alfonsa e quelle nuvole che prima bisogna strutturare e poi calare sulla terra. Una visione di moda vaporosa e accattivante, dietro la scenta di non dare stagionalità a capi sospesi che non pesano niente, e si mantengono solo sul punto vita pronto a segnare le silhouette con esuberanza.

Una mise en place di moda, che alla fine si snoda nella doppia anima di Grace, la capsule di debutto, presentata a Milano Moda Donna, lo scorso 22/23 febbraio dalle vetrine di Spazio Campania, alle spalle del duomo meneghino. A precederla: una capsule di luxury foulard. Cervellotica preview con una serie di filmati girati a Schio, in provincia di Vicenza, per la regia di Nero/Alessandro Neretti. Protagonista? Giuseppe Sartori, l’attore a torso nudo, ansimante e inseguito da stole di chiffon 100% seta e dallo psicotico leitmotiv: “Where is Grace?”
E l’attesa risposta aleggia da un maxi schermo e dai dieci abiti/installazione, sospesi a comporre la micro capsule.
Una replica intervallata poi dallo shooting, con protagonista Serena Rotundo, ballerina e non modella, che dagli scatti di Daniele Notaro, calza a aplomb quei contrasti immaginati dal creativo: da una parte Grace Jones, l’anima rock, ribelle, dall’altra Grace Kelly, eterea, sopraffina. Una mescolanza tra misura e dissolutezza, eleganza e scompiglio post party, post disco, post movida, il tutto soffuso dalle prime luci dell’alba, che un po’ celano, un po’ mostrano.
Le stelle ricordano Hollywood, ma sono anche rubate alle notti prave. Si spalmano su mini dress in tulle fascianti dall’effetto day & night. Consistenze di sogni tangibili che provocano e marcano il passo a Grace Kelly, alle piume dorate, ai palazzi di Montecarlo, in una (forse mal celata) ricerca della Grande Bellezza ma senza malinconie e maschere, solo trasparenze.
E poi gli abiti in tulle multicolor, i corsetti destrutturati, le balze arricciate su satin e pizzo, provando a strozzare in un pugno la sregolatezza degli anni 80, zeitgeist di Grace Jones e di quegli anni rampanti.
Anime eleganti e provocateur, che Mario Costantino Triolo tiene strette come si fa con il filo dell’aquilone. A colpi ariosi di tulle e tecnica, le ancora nella sua Grace, e poi nel suo eponimo brand. Un progetto emergente di moda per scolpire abiti, e dove magari concedersi la leggerezza di non pensare subito a chi li debba indossare. Aldilà del mercato, il designer artigiano, vorrebbe fermali in uno spazio terraqueo, seguendo un credo personale e dinamico di opera d’arte.
Perché qui, il pittore che si chiude davanti alla sua tela, non c’entra nulla. Per Triolo, la moda oggi è confronto, regia, un’orchestra di tessuti selezionati, perline, paillettes, zip, bottoni, che alla fine sono persone, aziende, luoghi, Italia, realtà pronte a collaborare al prodotto, misurando nuvole e calando sulla terra sogni.
