Secondo show in programma, per quel freddo venerdì di AltaRoma.
Dalla Sala 2 del Guido Reni District, corro immediatamente al mio angolino di “studio”, quello praticamente a terra, su un lato del viale. Alle ore 13.00, subito dopo Soocha, avrei assistito per la prima volta alla sfilata di Mihatami.
Incuriosita, afferro dalla mia cartellina bianca il comunicato stampa, che già mi sembrava abbastanza impegnativo, e inizio così a leggere e sottolineare.

Miahatami, brand dal nome composto, prende anima e cognome dal suo direttore creativo: Hatami, preceduto dall’aggettivo possessivo “mia”, proprio a sottolineare il legame tra la giovane designer, e l’ambizioso progetto di moda.
Quello di Narguess Hatami appunto, piccola donna iraniana che, dopo la maturità a Teheran fa i bagagli, e completa i suoi studi in Italia. Dove si laurea a Bologna, e al contempo, scopre una forte passione per la moda. Inizia così la sua formazione: il primo lavoro da Paola Frani, da MSGM, Marco Morosini, diventato suo mentore, e infine Aviù a fianco a Piergiorgio Piangerelli.
Esperienze professionali articolate, che contaminano il suo DNA d’innovazione, e design europeo. E che nel 2015, la spingono a lanciare il suo brand, con il quale poco più tardi, vincerà anche il secondo premio per il prèt-à-porter a Who Is On Next?2016.
Ad AltaRoma invece, in quella tarda mattinata, con “Revolutionary Road” collezione A/I 18-19, Narguess Hatami metteva in discussione se stessa, il suo know how, forgiato da anni di studio, e le sue preziose origini iraniane, ispirate da un momento storico importante: la Rivoluzione Bianca. Un progetto di 19 riforme lanciato nel 1963 dallo Scià Mohammad Reza Pahlavi, con l’obiettivo di migliorare la condizione economiche del paese, dei contadini e della donna.
Queste informazioni, insieme all’idea che mi ero fatta, dopo aver letto delle applicazioni gioiello, rivisitate in medaglie militari, bighellonavano nella mia testa, mentre entrando in sala, con fare spedito, riponevo il documento nella cartellina, e bramosa di ritrovarle tutte, mi preparavo ad assistere allo show.
Così, dal Guido Reni District “Revolutionary Road” , tradusse materialmente in moda, la promessa di quel viaggio culturale, che poco prima avevo cercato di metabolizzare.
E l’ha fatto con carattere, precisione, mantenendo intatto il suo passato, quell’heritage antichissimo, tanto caro alla designer.
In pochi minuti, ho visto sfilare lo stile militare, volutamente mixato ai colori e al vestire tipico della tradizione contadina, e nell’insieme fissare nei look quell’impronta leggendaria, etnica.
Sensazioni, atmosfera, storia veleggiavano in passerella, raccontando di una femminilità lievemente austera, fatta di preziose stampe, rigore e forme armoniche.
E in un abile ricerca costante, tra il ricco e il povero, ho riconosciuto il bisogno di Narguess, quello di combinare materiali e tessuti diversi: il panno di lana delle rigide giacche militari, e la seta stampata di abiti chemisier, fluttuanti con motivi ispirati alle maioliche.
E poi l’Oxford super light, il cotone morbido, e la lana, pronta seguire nuove sperimentazioni su giacche a vestaglia annodate su un fianco, e sui completi in trame con motivi ipnotici, dove magicamente sembrava tessuta a telaio.
Elementi forti e dettagli minuziosi, accordati tutti, nel raccontare il prestigio di una cultura incredibilmente fatata.
Ed io con gli occhi furtivi, mi facevo largo tra le teste davanti, per scrutare al meglio i particolari di disegni, cinture, accessori, per poi alla fine ritrovare loro, le medaglie militari, che appuntate sul petto, riprendevano forme e colori, dei maxi orecchini chandelier, quasi evocandone il delicato tintinnio.
Una palette cromatica dal flebile accenno di bianco, a richiamare l’ispirazione e quella rivoluzione che con i toni caldi dell’autunno – giallo, arancio, verde oliva, bordeaux, blu avio scuro – diveniva più nobile, forte, creativa.
Ho percepito in pieno, come tutto avesse il senso di celebrare una storia, un popolo, una cultura, e la vita spartana dei contadini iraniani che, per lavorare la terra indossavano calzettoni pesanti. Gli stessi rubati da Narguess, e trasformati in calzature.
Originalissimi stivaletti in fantasia jacquard dalla punta stondata, in perfetto stile Miahatami, usati anche qui, per percorrere quella strada, per me, per noi, per tutti, fantasticamente rivoluzionaria.
PH. S. Dragone | Luca Sorrentino (fonte: altaroma.it)